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pensieri di questi due anni...

"Nelle città  del dolore, della pena, dell'urlo, la targa "ospedale"  attende il tuo lavoro.
Chiunque tu sia  di grado e di sesso,  la tua opera  è mano protesa  a lenire, a consolare, a compiere ciò che i "cari"  non farebbero mai.
 I tuoi compiti  sono mille  e la pagina del domani  è sempre più pesante, densa di funzioni  eseguite contro il male."
Con questa citazione il poeta e musicista italiano Riccardo Mannerini, scriveva della mia professione, l’infermiera.
Tra una settimana esatta inizierò un nuovo periodo di tirocinio e nel frattempo mi trovo a tirare le somme di questi primi due anni
Potrei riassumere questa nuova parte della mia vita in poche parole: L’altro lato della medaglia.
 la situazione opposta a quella  vissuta 6 anni fa, quando non attaccavo flebo, quando non facevo prelievi, li subivo. Quando non somministravo farmaci, li assumevo.
Ho sempre pensato che la qualità migliore per un infermiere sia quella di sapersi immedesimare nel paziente, nel dolore che sta provando, per sapersi avvicinare a lui e assisterlo non solo dal punto di vista medico ma anche e soprattutto relazionale capendo cosa ci può essere oltre le lacrime, oltre la rabbia, oltre un gesto che può non essere compreso.
Quando mi relaziono con i pazienti, loro sentono subito di avere accanto una persona che li comprende davvero perché si è trovata nella stessa situazione, tanti anni prima.
Me ne accorgo quando un paziente coetaneo con una paralisi importante, dopo avermi chiesto il favore di sistemargli un oggetto personale sul suo comodino, mi ringrazia dicendomi: “grazie Debora, diventerai proprio una brava infermiera”; me ne accorgo anche quando una signora anziana mi prende in simpatia e quando mi vede esclama: “oh! Sono proprio contenta che ci sei tu oggi!”

Quasi tutte le persone che vengono a sapere di questa nuova parte della mia vita,però,  mi domandano come sia possibile, dopo aver sofferto così tanto all’interno di un ospedale, riuscire a metterci piede di nuovo e per giunta decidere di lavorarci. Le persone si domandano come mai abbia deciso di stare a contatto con la sofferenza, di nuovo.


Ci sono persone che dopo essere entrate in relazione con il mondo ospedaliero, si allontanano da quest’ultimo come fosse qualcosa da evitare a tutti i costi e poi c’è chi invece  ne viene completamente assorbito, magari anche affascinato e decide di farne parte.
Lavorare come infermiera per me significa ridare indietro in piccola parte tutto ciò che ho ricevuto io: professionalità, rispetto, amore.
Gesti semplici magari a volte anche scontati che medici e infermieri hanno sempre mantenuto in tutto il periodo in cui sono stata paziente al San Gerardo di Monza e che mi impegno ogni giorno, in qualsiasi nuovo reparto in cui entro, a ridare ai miei pazienti.
Immedesimarsi nella sofferenza altrui non vuol dire però tuffarcisi dentro e assorbirla, per questo ho dovuto maturare un percorso per “guarire” da tutte quelle ferite psicologiche che la malattia mi aveva provocato per arrivare ad una consapevolezza importante: non mi vedo più come una persona malata. Vedo la malattia come una parte del mio passato. Sono pronta a prendermi cura degli altri.
Penso sia lo stesso concetto che può essere utilizzato in amore: finchè non stai bene con te stesso e non sei felice tu in prima persona, non potrai mai donare felicità a chi ti sta accanto.
Così è stato per me, se avessi continuato a vedermi come paziente anche dopo tanti anni dalla guarigione, non sarei mai riuscita a entrare in questo percorso che mi sta dando enormi soddisfazioni.





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